
La doppia faccia dei lieviti
Gli autoctoni e i selezionati
Louis Pasteur è senza ombra di dubbio il nome di riferimento delle numerose conoscenze scientifiche che stanno alla base della moderna enologia. Fu proprio lui a scoprire e a spiegare, a partire dalla seconda metà dell’ Ottocento, il ruolo dei lieviti nella fermentazione e quello dell’ossigeno per la conservazione dei vini. I suoi studi hanno reso il processo di vinificazione un po’ meno casuale, anche grazie all’utilizzo dei lieviti secchi attivi, che aggiunti al mosto, favoriscono l’avvio e il controllo del procedimento, in modo da rafforzare il lavoro di quelli naturalmente presenti nell’uva (chiamati autoctoni o selvaggi).
Ci troviamo tuttavia ad analizzare aspetti non sempre positivi in merito all’aggiunta di lieviti. L’impiego di lieviti selezionati, infatti, influisce profondamente sul profilo organolettico del vino. Se parliamo di lieviti aromatici, ci troviamo di fronte al rischio che venga cancellato il gusto tipico di ciascun terroir, dando così vita a prodotti, sì corretti, ma tendenzialmente omologati. Negli ultimi anni è cresciuta la consapevolezza di questo “appiattimento gustativo” e ci si è resi conto del fatto che il lievito è parte integrante del terroir e che, quindi, un vino fermentato da lieviti diversi dai propri porta in sé qualcosa di estraneo.
Ogni vigneto, se curato in modo naturale, senza abuso di prodotti chimici e pesticidi è in grado di produrre lieviti efficaci e adatti alla composizione chimica del mosto. E’ possibile affermare che la possibilità di utilizzare lieviti selezionati è senz’altro un vantaggio nei casi più critici ( per esempio quando si hanno uve poco sane), consentendo così di portare a temine vinificazioni problematiche, ma in situazioni “normali” è bene che le fermentazioni avvengano spontaneamente grazie all’azione dei lieviti autoctoni.
L’introduzione di un elemento esterno potrebbe compromettere quel delicato equilibrio che è venuto a crearsi nel tempo fra uomo, vite e territorio.
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